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venerdì 30 marzo 2012

Fischietti umbri al femminile - Ede Napoletti e Anna Boni Reali

Memorie e Suoni di Terra

conversazioni con i maestri artigiani costruttori di fischietti in terracotta

Nei paesi della provincia di Perugia dove una volta erano radicate le botteghe di vasai, sono state due donne le ultime artigiane a portare avanti la produzione di fischietti in terracotta: si tratta di Anna Boni e Ede Napoletti. Ce ne parlano la stessa Signora Ede e Temistocle Reali - figlio di Anna e di suo marito Lorenzo Reali.[1]

Ede Napoletti:Mio marito faceva le terrecotte e i fischietti, e pian piano mi sono appassionata a queste cose. Non lavoravo al tornio, non lo so usare. Ma facevo le rifiniture, i decori. L’ho fatto per tanti anni.”

Temistocle Reali: “Anche Mamma aveva imparato a fare i fischietti, così li facevano sia lei che Papà. Mamma, però era più virtuosa.”

Il ruolo delle donne nella ceramica popolare

A ben vedere non si tratta di un caso così eccezionale. Anche se allarghiamo lo sguardo alle altre regioni d'Italia, è ormai riconosciuto che le donne abbiano avuto un ruolo non trascurabile nella produzione artigianale legata alla terracotta. E se nelle dinastie di vasai erano i figli maschi a essere iniziati all’arte del tornio ed a ereditare un giorno la gestione della bottega, è altrettanto vero che figlie e mogli davano immancabilmente un contributo importante nel portare avanti l’attività.

Alle donne erano affidate operazioni comunque faticose - come trasportare e impastare l’argilla - o per le quali era necessaria una notevole abilità – come eseguire le decorazioni e rifinire i pezzi. Tra le mansioni spesso affidate alle donne vi era inoltre la modellatura e la decorazione di alcune delle produzioni più umili della bottega, come appunto i fischietti in terracotta.[2]

Da questo punto di vista ci sono molti esempi documentati: a Nove (Vicenza), Antonia Scuro – moglie di Giacomo e mamma di Mario - era particolarmente abile nel modellare le parti fischianti da applicare poi ai cuchi fatti a stampo; [3] a Pignataro di Broccostella (Frosinone), la modellatura dei fischietti era addirittura una mansione prettamente femminile, portata avanti fino ai primi anni ’80 da Stella Adinolfi e dalla figlia Vincenza Santucci.[4]Ma torniamo alla tradizione dei vasai nella provincia di Perugia. A Montefalco e Torgiano fino a pochi decenni fa erano numerose le botteghe dei vasai. E se Deruta è nota sin dalla prima metà del ‘500 per la produzione di ceramica colta, la frazione di Ripabianca era specializzata già nell’800 nella modellatura di terrecotte non decorate.

Due botteghe artigiane tra passato e presente

In questo contesto fatto di piccole botteghe a gestione famigliare, si inseriscono le vicende di Anna Boni ed Ede Napoletti. Entrambe si maritarono con artigiani vasai che avevano alle spalle una solida tradizione famigliare: la prima sposò Lorenzo Reali, che aveva la sua bottega a Montefalco, mentre Ede Napoletti sposò Umbero Berti, vasaio di Ripabianca.

Ed entrambe si impegnarono a fondo nell'attività della bottega di famiglia. Non disdegnavano i lavori più umili, ma possedevano anche un estro creativo destinato a esprimersi sopratutto in tempi recenti attraverso la modellatura di fischietti e - per quanto riguarda la Boni - di sculture in terracotta.

Si tratta dunque di due storie personali con alcuni punti in comune, ma con un epilogo molto diverso. In seguito alla crisi della terracotta, all'inizio degli anni '90 la produzione della famiglia Reali è cessata. E’ d’altronde questa la sorte toccata dal secondo dopo guerra in poi a buona parte delle botteghe di vasai del perugino. Lo stesso Temistocle Reali – che era stato avviato al mestiere di vasaio sin dall'infanzia – una volta raggiunta la maggiore età dovette cercarsi una diversa professione.

Ede Napoletti è invece riuscita nell'impresa non facile di dare continuità alla propria attività artigianale ed a trasmetterla a figlio e nipote.

Temistocle Reali: “In famiglia abbiamo avuto generazioni di vasai: mio bisnonno Leopoldo, mio nonno Anagarzio, mio Papà Lorenzo, ed io.

Io ho fatto il vasaio fino alla classe terza media, lavoravo con il tornio. Quando ho smesso avevo 18-19 anni. Ho discusso con mio Papà perché lui voleva che io continuassi. Ma il lavoro non era redditizio. Volevo formarmi una famiglia e mi serviva il famoso posto fisso. E allora me ne sono andato. E mio Papà ha continuato da solo.

A Montefalco ce n’erano parecchi di vasai: erano 7-8 all’epoca. Poi è rimasto solo mio Papà. Tutti gli altri sono morti, e dei figli non ha proseguito nessuno.
Così a Montefalco il mestiere del vasaio è sparito completamente. Ed anche da altri paesi."

Ede Napoletti: “Son tanti anni che facciamo queste cose: nonni, bisnonni…di generazione in generazione. Nel ‘38 ho sposato Berti Umberto, mio marito, e sono venuta a vivere qui. A Ripabianca c’erano altre 3 fornaci, tutte a legna. Oggi tutte hanno smesso, i vecchi sono morti e i giovani hanno cambiato mestiere e non fanno più i cocci.
Poi mio marito è morto a 55 anni. Ma abbiamo continuato insieme a mio figlio Silvestro e mio nipote Fabrizio. Mio nipote lavora sul tornio e ha imparato molto bene. Ora ho un pronipote e chissà se anche lui vorrà fare questo mestiere.”

Ovviamente i due racconti sul mestiere di vasaio si sviluppano su piani cronologici diversi. Reali parla al passato e con una certa nostalgia della bottega e della fornace di famiglia oggi smantellate, e che si trovavano nel rione dei vasai di Porta Caimano. La Signora Napoletti racconta invece di quello che tutt'ora rappresenta il suo mestiere - pur con le dovute differenze rispetto al passato.

Temistocle Reali: "La bottega purtroppo l’abbiamo venduta, con grande rammarico. Avevamo una bella casetta nel rione di via Porta Camiano fatta tutta con mattoni e travi di legno. Sotto c’era il laboratorio, e da un altro ingresso si andava alla fornace. Era casa e bottega, praticamente. Purtroppo non se ne vedono più di botteghe così.”

Ede Napoletti: ”Ora abbiamo costruito un nuovo fabbricato, ma prima vivevamo tutti in quella casa. E’ la casa paterna di mio marito dove mi sono sposata e dove sono nati i miei figli. E li accanto erano il vecchio laboratorio e la fornace.

La fornace a legna che usiamo adesso è rifatta, mentre quella è antica. Io penso che sia senz’altro dell’800 o dei primi del ‘900. Hanno fatto anche degli studi e dicono che è una delle fornaci più antiche in assoluto."

L’azienda famigliare dei Berti è riuscita a sopravvivere alla crisi del settore puntando tutto sulla tradizione: a tutt'oggi vengono
adoperati fornace a legna e persino creta estratta e depurata localmente senza l'utilizzo di procedure industriali. In questo modo i Berti si sono assicurati una nicchia di clienti
costituita da cultori della ceramica popolare realizzata con materiali e procedimenti rigorosamente
tradizionali.

Ede Napoletti: "Tra i nostri prodotti e quelli fatti dagli altri c’è molta differenza! Cominciamo dalla terra: la terra che si compra e viene dalla Toscana, è degassata. Vorrebbe dire che è depurata. Viene cavata dal suolo come tutta la terra, ma poi passata con tanti macchinari che gli levano tutte le impurità. E allora non ha tutta una serie di sostanze minerali. La nostra, essendo come si trova in natura c’ha la resistenza, non è sfiancata.Così i vasi nostri possono stare al gelo quanto gli pare, ma non si rompono. Quelli fatti con la terra toscana invece si sfaldano.
E poi anche il forno a legna è molto diverso: il colore che gli può dare la fiamma non glie lo può dare il gas!

E’ faticoso ma ci siamo nati con questo mestiere: padri, figli, nipoti. Se io levassi il forno a legna perderei tanti miei clienti. Sono tutta gente istruita: dottori, professori, professionisti. Non prendono vasi se non sono fatti qui, perché noi manteniamo ancora la tradizione.”

L'estrazione e la preparazione dell'argilla

Temistocle Reali ci racconta la lunga e faticosa procedura utilizzata quando lui era un ragazzino per cavare l'argilla vicino a Montefalco, presso la cava di San Clemente, e poi per renderla pronta per l'uso: "L’argilla si procurava fuori del paese. Quando ero giovane ci sono andato anche io con mio Papà. C’erano dei banchi di argilla, andavamo alla cava col piccone, levavamo la terra, e venivano via dei pezzi fatti come dei libretti. Poi venivano con i buoi e la portavano su in paese.

Una volta su, l’argilla veniva spezzettata con un’ascia e buttata dentro una buca nel laboratorio. Poi dentro aggiungevamo un po’ d’acqua e veniva come un impasto. Poi si metteva l’argilla su un bancone lungo e con la verga di ferro si batteva 20-30 volte su e giù. Così veniva amalgamata, se no era tutta a tocchi, a pezzettini. Poi dopo la mettevamo un po’ fuori ad asciugare, se no era troppo molle. E poi si rimetteva su un altro bancone e si faceva come si fa il pane, si impastava. Perché se non era compatta non si poteva fare niente. E poi si lavorava. Oggi la terra arriva già pronta, non fai altro che prendere i tocchi di questa terra e metterla in lavorazione."

Come già accennato, i Berti hanno deciso di continuare a fare uso della terra locale da loro stessi estratta e depurata. Anche se oggi la procedura è resa più agevole dall'uso di mezzi meccanici come l'escavatrice e l'impastatrice, si tratta di una scelta senz'altro onerosa dal punto di vista dei tempi di lavorazione.

Ede Napoletti: “Noi c’abbiamo ancora la terra nostra dal campo: la estraemo l’argilla. Solo che adesso la scavamo con l’escavatore.
Questa è la terra che viene già pronta dalla Toscana, la usiamo ma ci facciamo solo certi lavori, perché è terra più fina.

Invece la terra nostra che scavamo giù al terreno è questa. C’è tanta lavorazione da fare: bisogna romperla a mano con il martello, poi si mette a bagno, poi si passa sui rulli per farla fina, e poi va all’impastatrice. E dopo è pronta."

La tornitura dei pezzi

Temistocle elenca quelli che erano i prodotti più comuni delle botteghe dei vasai, tutti rigorosamente realizzati con il tornio a pedale: "Mio Papà era un tornitore, faceva ad esempio le famose brocche per l’acqua. All’epoca le brocche erano indispensabili, perché in casa non ce l’avevamo l’acqua. Avevamo delle fontane pubbliche dove si andava ad attingere con queste brocche. Poi le donne le mettevano in testa, avvolgendo una specie di fazzoletto per tenerle sulla testa in equilibrio.
Poi Papà faceva i catini, vasi grandi dove adesso piantano i limoni. All’epoca però erano per fare il bucato, con la cenere. Facevamo anche questi mortai per il sale, perché il sale allora era grosso, e bisognava pestarlo. E i boccali per il vino che usavano nelle bettole.
Faceva anche quegli orci grandi per l’olio da un quintale- 1 quintale e mezzo. Grandissimi erano, però il guadagno non era tanto.

Noi facevamo i pezzi tutti a occhio, non è che avevamo le misure. Ormai l’esperienza era talmente tanta che si faceva un pallocco di creta di una certa misura e i vasi venivano grosso modo tutti uguali.

Poi dopo questa roba si metteva ad asciugare e bisognava stare attenti che l’inverno non gelava e che l’estate non veniva tanto sole - perché se no dopo crepavano."

A questo proposito è interessante notare come molti torni della zona avessero una particolare caratteristica: l'artigiano lo utilizzava stando seduto non su uno sgabello, ma sul pavimento, con le gambe incrociate: "Come tutti i vasai, Papà usava il tornio con la gamba, però stava seduto. Invece gli altri, in questa zona, erano messi come gli arabi, per terra. Se va a Deruta li trova ancora questi vasai che fanno queste robe."
Anche rispetto a questa fase della lavorazione, l'impresa Berti ci riserva una sorpresa: in un angolo del moderno capannone utilizzato per la lavorazione scorgiamo un anacronistico tornio a pedale tuttora in funzione.

Ede Napoletti: "Usiamo il tornio elettrico, ma certe rifiniture le facciamo ancora con questo tornio a pedale. Perché quello è troppo veloce."

La cottura nella fornace

Uno dei passaggi più impegnativi e che richiedevano maggiore esperienza ed abilità era per le botteghe di vasai quello della cottura dei pezzi. Temistocle Reali ed Ede Napoletti ci illustrano come è fatta una fornace a legna e come vengono disposti all’interno i pezzi. Il primo si aiuta in questa spiegazione mostrandoci alcune vecchie foto della fornace di famiglia a Montefalco, mentre la seconda ci porta a visitare le sue due fornaci: la prima è quella storica della bottega Berti, la seconda è quella più recente e più piccola, ma costruita in maniera assolutamente aderente alla tradizione.

Temistocle Reali: "Una volta fatti, i pezzi si mettevano sui forni. Il nostro forno era fatto con una camera larga una metrata e 10. Dentro i pezzi andavano incastrati, e poi l'entrata del forno si chiudeva con la creta. Non si usava quella buona, ma un altro tipo di cretone grezzo che si andava a prenderlo lungo le strade. Mi ricordo che poi toccava sempre fare questione perché magari facevamo una buca e prendevamo una carriolata di terra. E per fare amalgamare bene questa terra prendevamo lo scarto della paglia, quella fina-fina, e la mescolavamo insieme. La faceva stare più ferma.

Nella camera c’erano 12 fori, così quando aumentavamo il fuoco le fiamme andavano fuori da questi spiragli. Altrimenti se è tutto sigillato scoppia .”

Ede Napoletti: "La fornace vecchia è molto grande: per fare il fuoco si scendeva sotto alla camera di cottura con una scala. L’abbiamo chiusa e abbiamo fatto quella più piccola che usiamo adesso. Comunque nonostante che sono passati tanti anni in questa fornace ancora si potrebbe cocere.
Ancora oggi cociamo solo a legna, abbiamo quella sola di fornace. Degli studiosi di terrecotte sono venuti tante volte a fare fotografie, perché noi siamo restati gli unici che hanno i forni a legna, non c’è più nessuno. Questi sono i vasi nostri, hanno questi colori chiari perché glie li da la fiamma.

La fornace c’ha 12 camini, sono buchi da cui viene su il fuoco.
Oggi il forno lo vedete pieno perché lo abbiamo aperto ma non abbiamo ancora sfornato. E allora vede come sono messi dentro i pezzi: i vasi piccoli vanno dentro a quelli grandi. La fornace deve essere tutta piena perché la legna costa.
Quei mattoni tengono i vasi, perché ogni vaso non deve pesare sopra quell’altro, se no il coccio di terra cruda si rompe, no? Invece così ognuno è indipendente, riposa sui mattoni e si regge per conto suo.”

Per cuocere i pezzi senza che si rompessero era necessario in una prima fase far salire la temperatura in maniera molto graduale per effettuare la cosiddetta fase della tempera. Poi bisognava portare su la temperatura fino a circa mille gradi. L’esperienza insegnava ai vasai diversi stratagemmi per intuire la temperatura raggiunta e il livello di cottura dei prodotti all’interno della fornace. Oltre al colore dei pezzi e dei fumi, venivano a volte utilizzati dei piccoli oggetti chiamati provarelli: questi venivano collocati in punti della fornace facili da raggiungere ed estratti al momento opportuno per testare il livello di cottura.

Quanto alla durata della cottura, per i pezzi grandi e di maggiore spessore erano necessari anche tre giorni e altrettante notti di lavoro ininterrotto. Inevitabile per gli artigiani era darsi dei cambi, ed ancora una volta le donne facevano la loro parte.

Temistocle Reali: "Il forno arrivava a circa 1.000 gradi di caloria, tutto con la legna. La durata dipendeva da che tipo di materiale era dentro. Se c’erano per esempio i vasi grandi durava di più, se erano piccoli durava meno.

Ai pezzi bisognava dargli una tempra, non potevi dargli il fuoco immediato. Bisognava fare il fuoco lentamente per 8-10 ore, poi dopo piano piano si aumentava.

Si facevano i turni per vegliare il fuoco, e la notte la faceva sempre Mamma. Passate le 48 di fuoco la cottura era completa, E dopo il forno doveva stare quasi una settimana che si raffreddava. Dopo noi si apriva piano piano davanti e toglievamo i pezzi.

Poi io entravo dentro la buca di sotto dove si buttava la legna, e andavo a prendere la cenere, perché bisognava levarla. E allora Papà me ce mandava a me perché ero magro magro. E io tiravo fuori questa cenere.

Papà a un certo punto era diventato anziano ed aveva architettato di fare un'altra fornacetta più piccola. L’ha fatta lui in miniatura. Con questa si finiva prima: con 7-8 ore di cottura si faceva.”

Ede Napoletti: "Si fa fuoco da sotto, da quella buca li. Prima coi ceppi, con la legna irta, fino a che gli si da la tempera. Poi si chiude la buca grande e si apre quest’altra buchetta. E da qui si mette la legna piccola. Una volta per risparmiare si metteva anche la sansa delle olive. Perché la buttavano via, non costava niente, e allora la andavamo a prendere.

Il tempo che ci vuole dipende da che vasi: se lei inforna quei vasi grandi che vede li, quelli vanno 70 ore notte e giorno. Servono sulle 70 o 65 ore, dipende dalla qualità della legna. Il mio figliolo e mio nipote fanno mezza nottata per ciascuno.

Per la tempera ai vasi grandi ci vogliono 30 ore di fuoco basso, piano piano. E invece quell’altri 20 ore, 10 ore, 8 ore, secondo lo spessore dei vasi.

Noi andiamo sui 1.000 gradi di cottura. Altrimenti il coccio è cotto relativamente, non ha quella resistenza. Invece se lei suona un vaso mio è come il ferro, c’ha un suono argentino.

Adesso controlliamo la temperatura con la termocoppia che avemo messo. Mentre una volta facevamo coi provarelli. Si mettevano nel forno questi piccoli oggetti con lo smalto. Poi si levava il provarello dal forno usando uno spiedo. Quando era cotto lo smalto lucido era cotta anche la fornace.”

Solo in alcuni casi era necessario infornare i pezzi nuovamente per dar loro il “secondo fuoco”. Né Ripabianca ne Montefalco avevano una tradizione consolidata relativamente alla decorazione dei pezzi. Ovviamente per quanto riguarda gli utensili da cucina era necessario impermeabilizzarli dando al biscotto una mano di cristallina.

Ede Napoletti: “Noi facciamo solo terrecotte grezze, la tradizione qui è il grezzo. Se fa qualcosa di smaltato ma roba piccola. Se questi vasi li facciamo smaltati gli leviamo tutto: la tradizione nostra è quella, non possiamo uscirne.”

Temistocle Reali: “A certi pezzi, come le caraffe per l’acqua, si metteva la vernice che facevamo noi con il piombo. Perché il biscotto è poroso, se gli metti l’acqua fuoriesce. E allora con la vernice interna si saldava tutto.”

Le fiere di paese

Fondamentali erano per l’economia delle botteghe le fiere dove gli stessi artigiani vendevano i propri pezzi.

Temistocle Reali: “Facevamo le fiere di Foligno. Quella del 15 settembre abbinata con la Quintana[5] era la fiera grande. Poi c’era anche la fiera di San Feliciano, a gennaio.

Facevamo solo queste 2 fiere, e ci rimettevano un po’ in sesto economicamente. Andavamo direttamente noi a vendere.

Ci spostavamo con il cavallo. Non era nostro, ce lo prestavano, ma Papà era bravo a maneggiarla questa bestia. Anche io andavo, e dormivamo per terra. Mettevamo sotto un po’ di paglia e si dormiva.”

Ede Napoletti: “Si andava alle fiere col carretto e col cavallo. Si facevano anche i mercatini rionali, ma le fiere grandi erano Foligno, Spoleto, Santa Maria degli Angeli, Cannara, Spello.

Col cavallo dovevi farti la notte e arrivare la mattina alla fiera, perché Spoleto siamo a 44 km.”

La Signora Napoletti mostra poi di essere particolarmente attaccata alle fiere. Pur avendo passato i 90 anni Ede conserva una invidiabile vitalità, e non rinuncia a portare in giro i suoi vasi.

Ede Napoletti: “Io sono troppo affezionata alle fiere. Quando arrivo dovete vedere quanto mi vogliono bene, in quanti mi abbracciano e mi salutano! Mi è piaciuto sempre andarci, e ringraziando Iddio continuo ancora. Certo, col camion è tutta un'altra cosa!

I cavalieri e gli altri fischietti

I fischietti realizzati in quest’area del perugino erano di fattura piuttosto semplice. Normalmente il biscotto era lasciato grezzo, o al limite la decorazione consisteva in una semplice invetriatura. Anche la varietà di soggetti prodotti era limitata. Il fischietto più comune e più famoso di questa zona dell’Umbria è senz’altro il cavallo, con o senza il cavaliere. Ma si producevano anche le forme del gallo, l'ocarina, un richiamo da caccia.

Prevalentemente si trattava di fischietti modellati a mano. Facevano eccezione i soldati a cavallo, per i quali modellare i particolari dell'uniforme avrebbe richiesto una quantità di tempo eccessiva. In questo caso ad esempio nella bottega Reali venivano usati degli stampi per realizzare varie tipologie di soldati che venivano collocati sopra i cavalli modellati a mano. Si trattava di stampi monovalva, ed ovviamente i cavalieri avevano il retro piatto.

Per forme e tipo di decorazione questi fischietti ricordano da vicino quelli di altre zone dell'Umbria (Ficulle), ma anche di altre regioni del centro Italia, come Montelupo in Toscana o la Tuscia laziale (Vasanello, Vetralla).

Temistocle Reali: "Papà faceva il cavallo che gli fischiava dietro il sedere. Il sopra, il cavaliere, che era un bersagliere oppure un altro soldato, era fatto con lo stampino. E poi faceva il galletto e per qualche amico cacciatore faceva anche quello per richiamare le tortore. Questi fischietti senz’altro li facevano anche il Nonno ed il Bisnonno.”

Ede Napoletti: "Mio marito faceva i fischietti, ed ho imparato da lui. Allora facevano le ocarine, le trombette, il cavallo. Adesso li vogliono tutti con il cavaliere e abbiamo inserito i cavalieri.

Di solito a fare queste cose uno ci si mette più l’inverno che ha più tempo e non sta tanto in giro. E ti dedichi a fà qualcosina.Poi li cuocevamo a legna, anche perchè vanno coi vasi, va tutto insieme.

Dopo sono morti i vecchi e nessuno più dei figli ha continuato. A Ripabianca ci sono solo io che faccio fischietti, e a Deruta non c’è nessuno più che li fa.

A Torgiano hanno smesso del tutto. Ci sono rimasti due artigiani ma fanno più che altro pentole da fuoco, queste cose qui. Nessuno più ha fatto i fischietti. Così a Montefalco: morto Reali non ci sono più fischietti, perché nessuno ha imparato.

Invece qui abbiamo la fortuna di seguitare, perché mio figlio Silvestro li fa meglio di me, ha imparato. Anche se io un tocco glie lo do sempre. Si è appassionato, e così seguiterà la mia tradizione."

La principale occasione di vendita dei fischietti erano le fiere di paese, dove i fischietti - insieme alle campanelle e alle miniature di utensili da cucina - rappresentavano i giocattoli più ambiti dai bambini.

Temistocle Reali:I fischietti erano per i ragazzini, mentre per le bambine si facevano i brocchettini piccoli: mio Papà faceva lo scolatore per la pasta, il tegame, la marmitta.

Portavamo tutto alle fiere, e qualche fischietto si vendeva dentro casa. A quell’epoca potevano costare 10-15 lire, era la cosa che costava di meno. Era alla portata di tutti il fischietto."

Ede Napoletti: “Li vendevamo sulle piazze, c’erano proprio le bancarelle coi fischietti. Prima erano giocattoli, li compravano per i bambini. Non avevano st’importanza che hanno adesso.

Se un vaso costava 100 lire, un fischietto costava forse 1 lira, 50 centesimi. Poi mica se ne facevano tanti...Eran più che altro le persone anziane che non facevano altro, e allora mettevano su quella bancarellina di 2 metri con tutti ‘sti fischietti. E poi anche le campanelle. Ci son dei paesi che facevano la festa tradizionale della campanella.”

Oltre l’artigianato

E' importante sottolineare che negli ultimi decenni di attività, Anna Boni ebbe la possibilità di rivelare le sue doti di artista istintiva e popolare. Forse perchè più libera da incombenze legate alla cura ed alla sussistenza economica della propria famiglia, in questo periodo dette sfogo a tutta la sua creatività nella modellatura di vere e proprie sculture di terracotta, con o senza modulo sonoro. Il figlio Temistocle ci mostra la discreta collezione di questi pezzi che ancora conserva.

Temistocle Reali: "La Mamma ha iniziato a modellare nel 1961-62. Faceva delle vere sculture, anche senza scuola, perché mia Mamma c’aveva la terza elementare.

Papà non sapeva modellare, però alla Mamma non gli ha mai dato soddisfazione: diceva che lei non era una vera cocciara: solo lui sapeva usare il tornio! Papà era una persona di spirito, erano battute spiritose che lui faceva.

Questa è tutta roba di Mamma: ha fatto i ritratti di Garibaldi, Bixio, Moro. Mamma era molto devota e faceva anche figure religiose. Ha fatto Gesù Cristo, l’ultima cena, San Francesco che scaccia il diavolo, Santa Chiara, l’Anninciazione, il Papa Luciani.

Ha fatto le fasi di lavorazione della creta: questo è dove si batte la creta con la verga di ferro, e questo è dove si impasta. Ha fatto i buoi quando caricavano le uve per la vendemmia.

Questi devono essere Adamo ed Eva, e questi Giulietta e Romeo.

Si è fatta il ritratto da sola, e ha fatto anche il Papà.

Mamma faceva molti fischietti: faceva vari animali come le tartarughe, il bue, il pinguino. Le piaceva anche firmarli, ecco: Anna Boni Reali.

Anche i santi avevano il fischio, ma per la verità io dopo l’ho levato. Non mi piaceva tanto che avessero il fischio di dietro. Delle volte glie lo dicevo: Mamma, che fai con questo fischio!

Faceva solo il grezzo. Però qualcuno richiedeva dei pezzi pitturati, e allora la pittura la faceva un pittore. Però secondo me quando gli metti la vernice li rovini.

Quando mia Mamma era anziana gli estimatori venivano a trovarla da tutta Italia e anche dall’estero. Ho anche delle lettere di molti studiosi di arte popolare che si sono interessati. A casa era sempre un via vai.

Mia Mamma è stata anche chiamata a insegnare alle scuole: la chiamavano per insegnare a modellare la terracotta. E pensare che non c’aveva neanche la licenza elementare!"

Quanto a Ede Napoletti, gli appassionati di ceramica popolare le hanno tributato numerosissimi riconoscimenti. Nel 1993 a lei è andata la vittoria della prima Biennale Internazionale del Fischietto in Terracotta di Canove - sicuramente la rassegna più importante del settore. E più di recente la Biennale dei Fischietti Città di Matera le ha tributato un premio per il fischietto tradizionale nell’ambito della II edizione del 2010.

Le nuove leve dei fischietti al femminile

Il modo migliore di terminare queste note sui fischietti al femminile è probabilmente quello di menzionare alcune delle donne che - al pari dei colleghi di sesso maschile - hanno reinventato la tradizione del fischietto dando a questa una piena dignità artistica. In questo senso c'è solo l'imbarazzo della scelta: Paola Biancalana a Ficulle, Nicoletta Paccagnella a Nove, Maria Bruna Festa a Matera, Nagase Hiroko a Lecce, sono tutte autrici apprezzate e che hanno fatto della ceramica fischiante il centro della loro ricerca ceramica.

NOTE

[1] Anna Boni e Lorenzo Reali sono scomparsi rispettivamente nel 2002 e nel 1992.

[2] Si veda ad esempio Francesca Sgrò, “I produttori dei fischietti di terracotta: aspetti di culture artigiane”, in Paola Piangerelli (cur.), La terra, il fuoco, l’acqua, il soffio – la collezione dei fischietti in terracotta del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Edizioni De Luca 1995

[3] Si veda L. Scuro, M. G. Scuro, R. Zaltron, Mario Scuro – quaderni delle ceramiche fischianti 1, Cucari Veneti 2005.

[4] Si Veda F. Sgrò, op. cit.; Stella Adinolfi e Vincenza erano rispettivamente moglie e figlia del vasaio Armando Cantucci.

[5] La Giostra della Quintana è un torneo cavalleresco ed una manifestazione storica in costume che si svolge a Foligno la cui esistenza è documentata dal secolo XV.

FOTO

1. Ede Napoletti (foto di Paolo Loforti)

2. Fischietto di Anna Boni (bersagliere a cavallo)

3. Anna Boni e Lorenzo Reali (foto Famiglia Reali)

4. Fischietto di Ede Napoletti (collezione Museo dei Cuchi di Cesuna)

5. La fornace attualmente in uso presso la ditta Berti

6. Antica bottega Reali (foto Famiglia Reali)

7. Provarello

8. Fischietto di Lorenzo Reali (collezione Museo dei Cuchi di Cesuna)

9. Sculture di Anna Boni (carabinieri e Vittorio Emanuele)

Testi di Massimiliano Trulli massitrulli@gmail.com - riproduzione vietata

venerdì 23 marzo 2012

Idelmo Fecchio, el Vecio delle Ocarine - Omaggio per il 102° compleanno

Memorie e suoni di terra
Conversazioni con i maestri artigiani costruttori di fischietti in terracotta

I fischietti del Delta del Po potrebbero essere considerati la quintessenza del fischietto popolare. Nella civiltà rurale che caratterizzava fino a 45-50 anni fa questa zona del Veneto, non erano solo gli artigiani a realizzare questi oggetti, come avveniva un po’ in tutte le regioni d’Italia e nel mondo. Data la disponibilità di materia prima, erano anche le persone comuni, spesso i bambini, a improvvisarsi costruttori di fischietti.

A spiegarcelo sono Benvenuto e Giuseppina, che oltre ad essere i gestori della fattoria didattica “L’Ocarina” di Grillara, nel Polesine, sono rispettivamente figlio e nuora di Idelmo Fecchio, che dall’alto dei suoi 102 anni è senza dubbio il costruttore di fischietti più anziano ancora attivo nel nostro Paese.

Benvenuto: “Qua è una zona dove l’argilla non manca: nelle Golene del Po ed in queste campagne la terra è tutta argillosa. E allora i bambini, i ragazzi oppure anche gli adulti vedevano nelle fiere questi fischietti - che all’epoca erano uno dei divertimenti più ricercati - e poi cercavano di imitarli col fango. Andavano nelle campagne, oppure lungo i fiumi, prendevano le argille e poi le lavoravano. Facevano dei lavoretti spontane, e qualcuno un po’ più abile riusciva a far suonare il fischietto o a costruire qualche ocarinetta così, senza pretese.

Giuseppina: “Quando giriamo con i nostri pezzi da queste parti, ancora oggi troviamo tante persone che dicono: “anche io facevo l’ocarina”.

Benvenuto: “Ad esempio qui nella fattoria didattica è esposto un fischiettino fatto da un personaggio di queste parti, che mi ha raccontato la storia di come imparò a farli un giorno che c’era il temporale. Perché qui vengono dei grossi temporali, e una volta non c’era altra alternativa che rimanere chiusi in famiglia. E allora un vecchio lo chiamò nella stalla e gli disse: “Vieni qua con mi, che ti insegno a fare una bella robina”. E gli ha insegnò a fare i fischietti.

E di queste storie ce ne sono tantissime: sono storie semplici, di una produzione spontanea. Non sono storie di bottega, di una tradizione ceramica vera e propria o di forme ricercate.”

Oltre al fischietto, un altro oggetto profondamente legato alle tradizione del territorio è l’ocarina politonale ed in grado di produrre una vera e propria melodia. A questo proposito è bene fare da subito una precisazione sul significato attribuito da queste parti al termine ocarina.

Benvenuto: “Nel nostro dialetto “ocarina” può riferirsi all’ocarina vera e propria, allo strumento, ma anche al fischietto, e persino ai piccoli giocattoli improvvisati di argilla. Ocarina è insomma tutto quello che si fa col fango.”

Al di là di questi passatempi fabbricati da bambini e adulti, la tradizione della terracotta nel Delta del Po è legata soprattutto alla produzione di mattoni per l’edilizia.

Benvenuto: “Da queste parti non c’è mai stata una tradizione di botteghe di ceramica vera e propria. La nostra era una tradizione un po’ povera: c’erano tantissime fornaci che facevano i mattoni. Questo perché c’era la materia prima, ma anche il sistema di trasporto: fino ai primi del ‘900 per il trasporto dei mattoni si usavano le barche. Era molto più pratico che portarli con muli o cavalli. Partendo da qua si poteva far arrivare la merce fin sopra Treviso grazie a vari sistemi idraulici fatti di sbalzi e chiuse.”

L’apprendistato nelle fornaci: rubando il mestiere con gli occhi

In una di queste fabbriche di laterizi Idelmo Fecchio iniziò 90 anni fa o giù di lì a produrre le sue ocarine. Frequentava le fornaci fin da bambino, prima perché ci lavorava sua madre e poi - appena diventato adolescente - perché aveva cominciato a lavorarci lui stesso. E fu così che osservando quello che facevano gli artigiani esperti, imparò anche lui come si fa a far fischiare la terra.

Ci raccontano di questi suoi esordi Idelmo stesso e la sua famiglia.

Idelmo: “Le prime cose le ho fatte che avevo 10-12 anni; facevo queste colombine. Poi a 14 anni, nel 1924, lavoravo nella fornace di mattoni e ho iniziato a fare le prime ocarine. Non c’era molto da mangiare, e io mi adattavo a fare anche questi lavori. Le copiavo dagli altri. Oppure ne compravo una nelle fiere, per 50 centesimi, e poi la ricopiavo. E un po’ alla volta ho imparato”.

Giuseppina: “Praticamente ha imparato perché tanti anni fa nelle feste paesane c’erano questi fischietti, queste ocarine. E lui ne era innamorato, ma non poteva comprarle perché non aveva soldi. Era di una famiglia poverissima; tra l’altro suo Papà era morto giovanissimo. E visto che sua Mamma lavorava in una fornace dove facevano i mattoni, lui andava lì e piano piano ha iniziato a fare delle ocarine. E da li gli è presa la passione e non ha mai smesso.”

Benvenuto: “Iniziò a lavorare anche lui in una fornace. E durante le pause o durante l’attesa del forno lui faceva questi lavoretti. Perché la fornace dei mattoni andava avanti a cuocere anche dei giorni, e allora qualcuno ingannava il tempo durante la veglia facendo queste cose.”

La produzione di fischietti e ocarine nel Delta del Pò

E il racconto a più voci continua. La famiglia Fecchio ci descrive la modalità di lavorazione dei fischietti e delle ocarine ai tempi in cui Idelmo era giovane. Le modalità di approvvigionamento della materia prima tra gli scarti della fornace o sul greto del fiume, la cottura del tutto assente o solo approssimativa tra le braci del focolare domestico, la decorazione per nulla ricercata, sono tutti elementi che ci confermano di come si trattasse di una produzione particolarmente povera e realizzata con mezzi precari.

Idelmo: “Gli strumenti per lavorare me li facevo da solo, e per fare un’ocarina ci mettevo anche due ore. Bisogna intonarle e ci vuole il suo tempo. L’argilla la prendevo dove lavoravo, dove facevamo i mattoni.”

Giuseppina: “Oppure la terra l’andava a prendere proprio sulle Golene, dove l’argilla non mancava.

Quella delle ocarine era la sua passione sin da bambino, ma non faceva solo quelle. Ha sempre avuto molta abilità manuale, faceva anche i cesti, le culle, eccetera.”

Benvenuto: “Per fare le ocarine si possono usare anche stampi, ma dalle nostra parti si è sempre fatto tutto a mano. Si usano solamente dei pezzettini di legno come contro-stampo. Ci sono dei coni ben definiti come misure, per avere la scala giusta. Poi ognuna è sempre un po’ diversa dall’altra di qualche mezzo tono, perché è sempre un prodotto artigianale.

Non è che i pezzi fossero sempre cotti. Visto che erano lavoretti spontanei, spesso venivano adoperati anche crudi. Magari si lasciavano essiccare e si dava solo una mano di colore. I più fortunati riuscivano a fare le cotture perchè avevano qualche parente che aveva una fornace, oppure che ci lavorava. Oppure si cuocevano nelle cucine di casa, proprio nel braciere della cucina.

Anche mio Papà ha il forno solo dagli anni ’80, ma prima cuoceva i pezzi nel forno della cucina. E ogni tanto, quando qualcuno di noi andava a muovere le braci e magari rompeva un’ocarina o un fischietto, allora era un disastro, si apriva un grande conflitto in famiglia!”

Idelmo: “Quando facevamo le infornate mettevo dentro anche un po’ di ocarine. Poi gli davo il colore rosso e le vendevo.”

Benvenuto: “Di solito i pezzi erano colorati a tinta unita, con il rosso o il blu, non erano fischietti molto variopinti. E si usavano delle comuni vernici, non si adoperavano colori a fuoco.”

Anche le modalità di vendita erano caratterizzate più da spontaneità e improvvisazione che da una sistematica organizzazione commerciale; d’altronde la produzione riguardava un numero di pezzi molto limitato, che veniva venduto direttamente ai clienti presso i luoghi di ritrovo di paese. Altre volte si utilizzavano degli intermediari, come quei barcari che commercializzavano i mattoni delle fornaci. Inutile dire che i prezzi delle ocarine e dei fischietti erano irrisori.

Idelmo: “C’erano i barcari che caricavano il materiale. Io andavo da loro e si comperavano anche le ocarine.
Oppure le vendevo all’osteria. E qualcuno veniva a cercarle anche qui in casa. Ne davo via 7-8 alla volta, non di più. E magari ci ricavavo 20-30 centesimi. Perché di soldi non ce n’erano molti. Per un kg di pane ne dovevo vendere 4 o 5 di ocarine, perché allora il pane costava 1 lira. Però era pane buono, non come quello di adesso. E le persone avevano più rispetto, mica come adesso.”

Benvenuto: “Le ocarine che riusciva a fare le vendeva, ma non con una bottega. Qualcuno ricorda ancora Idelmo che prendeva su la sua cassettina e le andava a vendere. Si fermava in osteria, o le faceva vedere ai bambini, e così via.

Era un personaggio! Anche durante la processione si metteva lì a suonare e qualcosina vendeva, però mai delle grandi quantità.”

Giuseppina: “Aveva anche un carattere molto estroso, e questo lo aiutava per la vendita: si metteva lì e le suonava. E qualcuno diceva: “Idelmo, vendimi un’ocarina”. E lui gliela dava.”

In mancanza di prove documentali o ritrovamenti di fischietti antichi, non è facile indagare quali fossero le forme caratteristiche dei fischietti di queste parti.

Benvenuto: “Non è che da queste parti siano state tramandate alcune forme di fischietti in particolare. Per il fischietto sicuramente c’è sempre stata la forma di uccello, la colombina. D’altronde è tutto materiale di cui purtroppo non è rimasto niente. I pezzi non li cuocevano o erano mezzi cotti nella fornace di casa. Non erano cose a cui davano importanza, e sono andate perse. I pezzi più vecchi in circolazione sono quelli che ha fatto mio Papà nei primissimi anni ’70.

Per l’ocarina vera e propria la forma è sempre stata quella allungata, anche se mio Papà ha fatto anche qualche ocarina più schiacciata o qualche forma di animale.”

Idelmo: “Facevo le ocarine e anche queste altre: ochette, galletti. Di queste ne andavano via parecchie.”

Un personaggio bizzarro

La produzione di fischietti e ocarine ha accompagnato tutta la vita di Idelmo come una passione profonda ed incrollabile anche di fronte alla crisi di interesse verso questi oggetti che seguì la seconda guerra mondiale. Per alcuni decenni, e fino alla recente riscoperta e valorizzazione dei fischietti, rimase l’unico artigiano del Polesine a portare avanti caparbiamente questa tradizione. Dobbiamo quindi dire grazie a Idelmo se non è andato definitivamente perduto un importante patrimonio della cultura materiale di questo territorio e se oggi le istituzioni locali, come l’Ente Parco del Delta del Po, hanno potuto riprendere e valorizzare queste tradizioni produttive a fini turistici. A lungo, tuttavia, l’ostinazione di Idelmo nel proseguire una produzione ormai desueta e antieconomica gli ha valso la fama di personaggio eccentrico, quasi balordo.

Giuseppina: “Fino a 20 anni fa Idelmo era un po’ considerato un personaggio stravagante per la sua abitudine di mettersi lì a fare le ocarine. Quando ho conosciuto Benvenuto e ci siamo fidanzati, suo Papà era conosciuto in paese come il “nonno delle ocarine”. In dialetto mi dicevano: “Ah, te fà l'amore al fiolo del vecio dele ocarine!” E me lo dicevano un po’ sotto intendendo che era un personaggio strano.”

Benvenuto: “Per la gente di qui era un po’ considerato un burlone, un perdigiorno: con tutto quello che c’è da fare in campagna tu perdi il tuo tempo a fare le ocarine? Fai qualcosa di meglio!
Non c’era la considerazione che abbiamo oggi per questo tipo di oggetti della nostra tradizione. Questa considerazione l’abbiamo conquistata passo dopo passo io e Giuseppina. Con il suo contributo ovviamente! Un po’ alla volta abbiamo creato interesse per questo ambiente magico!

Oggi i riconoscimenti attibuitigli da appassionati e cultori di arte popolare hanno riscattato in pieno il talento artistico di Idelmo: nel 1997 è stato segnalato dalla giuria della III rassegna Biennale Internazionale del fischietto in terracotta di Canove di Roana; nel 2007 è stato premiato per meriti artistici dall' Associazione Amici del Museo Dei Cuchi di Cesuna con diploma e medaglia d'argento; nel 2008 ha ricevuto il premio alla carriera della I Biennale Internazinale del Fishietto in terracotta città di Matera.

La Guerra di Idelmo

L’esperienza della seconda Guerra Mondiale e della prigionia in Germania hanno segnato profondamente Idelmo. Ma persino durante questo periodo così drammatico ha giocato un ruolo la sua passione per la produzione di terra che suona.

Benvenuto: “Durante la guerra è stato prigioniero dei tedeschi mentre era in Croazia. Con una marcia forzata furono portati in Germania e chiusi in un campo di prigionia.

Gli davano da mangiare veramente poco, e allora mangiavano erba, ortiche, tutto quello che cresceva in maniera spontanea. Alla fine della guerra è rincasato dalla Germania che pesava 35 kg, era veramente molto magro.

Idelmo: “In Germania mangiavamo foglie di pianta ed erba. C’erano delle piante alle quali non era rimasta neanche una foglia attaccata. Non dico per scherzo!”

Giuseppina “E’ rimasto molto scioccato dall’esperienza della guerra. Ne racconta sempre, e alcuni di questi racconti sono davvero tremendi.”

Benvenuto: “Erano impiegati nei lavori forzati, scavavano delle buche e riparavano le tubazioni. Durante un bombardamento lui prese un po’ di argilla da un cratere che avevano scavato e se la portò in baracca. E lì iniziò a fare qualcuno dei suoi prodotti.
Se ne accorse un ufficiale, e per un periodo di tempo lo sollevarono dalle altre occupazioni per fargli produrre queste cose. Per 4 mesi veniva trasferito col pullman in un'altra baracca dove gli facevano fare un po’ di ocarine, un po’ di fischietti. In cambio per 4 mesi ha mangiato un quartino di pane in più, e il lavoro era meno faticoso. A volte ricordando questo evento diceva che le ocarine gli avevano salvato la vita, forse anche per dare un po’ di colore!”

Due generazioni di “lavoratori del fango”

La produzione di fischietti nella famiglia Fecchio viene portata avanti con passione anche da Benvenuto e dalla moglie Giuseppina.

I fischietti di Benvenuto hanno un dono raro: attraverso un delicato equilibrio coniugano la raffinatezza formale del fischietto artistico con un impronta comunque tradizionale. Questa sua caratteristica lo ha portato peraltro a raccogliere riconoscimenti in concorsi importanti come la Biennale Internazionale del Fischietto di Canove di Roana.[1]

E’ poi doveroso sottolineare che Benvenuto realizza anche ocarine di eccellente qualità, e che sono state suonate da orchestre prestigiose.[2]

Benvenuto: “Io non mi definisco ceramista: mi definisco lavoratore del fango. Un ceramista è colui che ha una tradizione di bottega dove si fa la ceramica, ed ha proprio una cultura ceramica. Qui non ci sono queste tradizioni proprio di bottega, noi invece abbiamo la cultura del fango e dell’ambiente.

In maniera inconsapevole i fischietti li facevo fin da bambino, cercando di imitare quelli che faceva mio Padre.

Dopo, nell’età un po’ critica, diciamo dalle medie fino a 22 anni, è un mondo che mi è sfuggito dalle mani nella maniera più assoluta. Ma a partire dai primissimi anni ’80 mi è tornata questa voglia di fare attraverso l’argilla. E’ stata una esigenza molto forte, non so da dove sia nata.

Mi hanno spinto molto le prime uscite che facevo per portare in mostra i prodotti di mio Padre. Ormai cominciava a diventare anziano, e non poteva più girare da solo con il motorino, così andavamo insieme in macchina. Sarà stato anche l’interesse che trovavamo con il banchetto, soprattutto delle persone anziane che si avvicinavano e dicevano: “finalmente qualcosa che mi ricorda quando ero bambino e facevo queste cose qui. Anche io le facevo, sai? Andavo lungo il fosso con i miei fratelli, impastavo l’argilla, e la facevo anche suonare.”

E vedere tutti questi occhi lucidi, queste emozioni della gente, mi ha fatto scoprire una dimensione che prima non conoscevo. E mi sono raffigurato in loro e sono andato avanti a fare queste cose.

Rispetto alle forme dei miei fischietti, inizialmente ho seguito un po’ le orme di mio Padre. Ma poi successivamente ho preso la mia strada. La differenza tra i prodotti miei ed anche di Giuseppina e quelli di mio Papà è che lui non si è mai confrontato con altri autori. Ha la sua visione, il suo stile. Io invece ho avuto la fortuna di vedere il Museo dei Cuchi di Cesuna, di conoscere Armando Scuto e gli altri collezionisti. Girando di quà e di là mi sono confrontato anche con altri costruttori di fischietti. Insomma vuoi o non vuoi, l’occhio vede e influenza le cose che fai. Ho sempre la mia mano, la mia linea, però sicuramente sono stato contagiato anche da un mix di ispirazioni.”

Deliziosi e onirici anche i fischietti di Giuseppina, spesso ispirati al mondo delle favole. E c’è qualche segnale per poter sperare che anche Chiara e Giada, le giovanissime figlie di questa coppia costituiscano la terza generazione a portare avanti la tradizione dei Fecchio.

Giuseppina: “Io ho iniziato a fare fischietti 20 anni fa, quando mi sono sposata con Benvenuto. Anche a e mi è presa proprio la passione per queste cose.

Delle nostre figlie una è ancora troppo piccola, l’altra ogni tanto si mette a fare queste cose, anche con la pittura. Però è ancora presto per dire se si tratterà di una cosa durevole.”

La fattoria didattica “L’Ocarina” di Grillara

Oggi Giuseppina e Benvenuto si dividono tra il lavoro della loro azienda agricola e l’impegno della fattoria didattica, che accoglie ogni anno centinaia di visitatori e li accompagna alla scoperta delle tradizioni del territorio del Delta del Po. Ovviamente le ocarine e i fischietti sono il pezzo forte di questi percorsi educativi. Alcune splendide bacheche in legno fatte da Benvenuto stesso mettono questi prodotti in mostra, mentre dei pannelli didattici ne illustrano la storia.[3] Ma soprattutto, bambini e adulti vengono invitati a impastare l’argilla con le proprie mani per sperimentare in prima persona come si fa a far fischiare la terra.

Giuseppina: “La nostra attività principale rimane l’azienda agricola. Abbiamo anche alberi da frutto. Insomma lavoriamo la terra in due maniere: abbiamo la nostra terra come contadini e poi abbiamo anche la terra per le ocarine!”

Benvenuto: “Anche mio Padre faceva attività didattica con alcune scuole che venivano qua. Gli facevamo fare una visita alla fattoria e poi facevano qualche fischietto ed ocarina. Era organizzato più alla buona, poi pian pianino abbiamo fatto il salto di qualità con i locali.

Dai primi anni del 2000 la fattoria didattica è entrata nel circuito dei luoghi di interesse culturale del Parco del Delta del Po. Abbiamo risistemato i locali, e grazie al sostegno del Parco abbiamo fatto dei pannelli didattici che servono a dare un filo logico al discorso.

Con le scolaresche abbiamo un buon riscontro, a livello locale ma non solo: vengono anche da altre regioni, dalle Marche a tutto il Nord Italia. La maggior parte sono scuole medie, ma vengono anche le elementari.

Saltuariamente vengono anche dalle superiori, ma sono più che altro gli istituti alberghieri, che si occupano di turismo e fanno visite guidate piuttosto che laboratori veri e propri.

E poi ci sono anche gli adulti: alcuni gruppi organizzati scelgono come opzione di visitare la fattoria didattica, e quindi una decina di gruppi all’anno vengono.”

Giuseppina: “Anche quando vengono gli adulti i laboratori riescono molto bene: spesso gli adulti conservano la passione per la loro terra e per il lavoro manuale, e si impegnano tanto. All’inizio eravamo un po’ imbarazzati quando arrivano gruppi di adulti. Ci chiedevamo: ed ora cosa gli facciamo fare? Poi alla fine gli facciamo fare più o meno le stesse cose dei piccoli, e gli danno molta soddisfazione! E poi vengono fuori un sacco di storie che ci raccontano sulle loro tradizioni.”

Ma l’impegno della famiglia Fecchio nella valorizzazione dei fischietti e delle ocarine tradizionali del loro territorio si esprime anche attraverso i banchetti di fischietti e ocarine allestiti di quando in quando durante le fiere e le sagre.

Benvenuto: “Ultimamente si sta riscoprendo il banchetto delle ocarine: stanno un po’ rievocando le sagre di una volta, e spesso ci chiamano per fare una dimostrazione di questo particolare mestiere. Ad esempio a Badia Polesine una volta si faceva la sagra dei cuchi. Quando l’hanno rispolverata ci hanno chiamati. A volte, magari, lavorando sul posto si crea il momento magico, l’atmosfera, e allora si vende un po’.

Per il resto non è che di ocarine e fischietti ne vendi tante. Qualcosa vendiamo durante le visite guidate, quando i visitatori prendono qualche ricordino del luogo. D’altronde non abbiamo una fabbrica, non saremmo in grado di stare dietro ad una richiesta di mercato molto più alta di quella attuale. E poi il fischietto è molto laborioso, porta via tanto tempo: quando lo si vende si prende qualcosa, ma è più un fatto di soddisfazione che di reale guadagno.”

Un secolo intero a far fischiare l’argilla

Idelmo, 102 anni in questi giorni, continua imperterrito a lavorare la creta ed a regalarci deliziosi fischietti ed ocarine. Non possiamo dire se il segreto della sua longevità sia proprio questa sua passione incrollabile per la terra sonora o piuttosto le amorevoli cure di Benvenuto, Giuseppina, e della moglie Romilda. Di certo possiamo dire che recentemente, dopo essere stato costretto a letto per quasi due mesi da un incidente, il suo primo pensiero appena alzatosi dal letto è stato quello di tornare a modellare i suoi amati prodotti.

Benvenuto: “Idelmo il 22 febbraio 2012, su consiglio del fisioterapista, da coricato sul letto piano piano l'abbiamo messo sulla sedia. Il suo primo desiderio da seduto è stato quello di andare al suo solito posto a tavola e di avere subito a disposizione un pezzo di terra per poter dargli il suono! Così gli ho procurato subito il materiale. Per me ha fatto un altro miracolo!”

Idelmo: “Lavoro tutti i giorni, a volte anche la domenica. Di fischietti ne ho una cassa piena. Per fortuna che ho una vista forte!”

Testi di Massimiliano Trulli massitrulli@gmail.com, vietata la riproduzione


NOTE

[1] In particolare durante le edizioni V e IX e X del concorso, tenutesi rispettivamente nel 2001, nel 2009 e nel 2011, la giuria ha attribuito riconoscimenti ai fischietti di Benvenuto.

[2] Tra i gruppi che hanno suonato in concerto le ocarine di Benvenuto Fecchio citiamo il Gruppo Ocarinistico Budriese diretto da Emiliano Bernagozzi e i Cavranera, ocarina solista Fabio Galliani.

[3] L’occasione per inaugurare questo nuovo allestimento è stata il 100° compleanno di Idelmo Fecchio. L’Associazione Anemos, Il Museo dei Cuchi, il Gruppo Cucari Veneti, e decine di artigiani e artisti del fischietto hanno voluto rendere omaggio al cucaro più anziano d’Italia donando una bella collezione di fischietti, il tutto di fronte a una grande folla festante.

FOTO

1. Idelmo Fecchio (foto Daniele Ferroni); 2. Fischietto di Idelmo Fecchio (collezione famiglia Fecchio); 3. Fischietto di Idelmo Fecchio (collezione M. Trulli); 4. Insegna della fattoria didattica (foto O. Chieco); 5. Fischietti di Idelmo Fecchio (collezione A. Scuto); 6. Fischietto Benvenuto Fecchio (collezione Famiglia Fecchio); 7. Foto Giuseppina Fecchio (collezione Famiglia Fecchio); 8. Bacheche costruite da Benvenuto Fecchio; 9. Benvenuto Fecchio al lavoro (foto M. Trulli).

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